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Come fa la parola a curare?

  • Immagine del redattore: Margherita Zannoni
    Margherita Zannoni
  • 17 mar 2021
  • Tempo di lettura: 4 min

Le parole hanno il valore che dà loro chi le ascolta.

G.Verga


Qualcuno - qualcuno di nome Sigmund Freud - molti anni fa ha scoperto che la parola ha un potere trasformativo sull'essere umano e sulle sue patologie psichiche. La psicoanalisi nasce da qui: problemi mentali e nevrosi non vengono più curate solo farmacologicamente ma attraverso uno strumento sottovalutato fino ad allora, la parola.

Durante un percorso psicologico, d'altronde, non si fa nient'altro che parlare. Al centro di tutto c'è la parola di chi chiede aiuto.

Ed ecco che generalmente la gente chiede: ma come si fa a cambiare le cose parlando? Le parole non servono, servono i fatti! Perché dovrei pagare qualcuno per parlare e basta?

Bene, partiamo da qui.


Parlare non è mai solamente mettere delle parole in voce, comunicare con l'altro. Noi comunichiamo continuamente, riportiamo con più o meno difficoltà i nostri sentimenti con le persone che ci sono vicine, esprimiamo le nostre opinioni in una discussione, facciamo molte cose con lo strumento della parola.

Ma come essa può risolvere conflitti, sofferenze, situazioni dolorose e difficili della vita di tutti i giorni?


Innanzitutto bisogna precisare che il "parlare" in una stanza di terapia è un modo di parlare diverso da quello che sperimentiamo ogni giorno con amici, parenti, coniugi. Questo accade in particolare per una questione fondamentale: la stanza di uno psicologo dà piena libertà di parola e priva la comunicazione di censure e giudizi. Questo è un primo punto che dobbiamo tenere a mente.

E' vero che abbiamo amici a cui diciamo praticamente tutto, persone con cui non ci vergognamo di dire cose molto intime, eppure quella persona ha un effetto su di noi, abbiamo con lui o lei un rapporto che ci impedisce di esporre senza filtri i nostri pensieri. Quella persona rappresenta per noi qualcosa, abbiamo aspettative, paure, siamo in un rapporto affettivo che ci preclude di poter parlare in modo assolutamente franco. Inoltre, l'amico, seppur con le migliori intenzioni, parlerà sempre a partire dalla sua posizione soggettiva, dalle sue credenze e con le sue reazioni emotive: parlerà, come è giusto che sia, attraverso il suo modo di vedere il mondo che è necessariamente diverso dal vostro.


Certo, parlare con un amico spesso porta molto beneficio: ci si sfoga, si chiedono consigli, riusciamo a calmarci e stare meglio. Questo è uno dei tanti benefici della parola: comunicare all'altro i propri vissuti e sentirsi ascoltati.

Ma una volta che lo sfogo è passato, che il conflitto è finito e quella persona torna alla sua vita normale, può dire che nella sua esperienza di vita qualcosa sia cambiato?

Purtroppo, come tutti ben sappiamo, questioni che rimangono irrisolte tendono a tornare, magari sotto forme diverse, ma senza che davvero cambi mai qualcosa.

Uno psicologo non è un amico, è un estraneo. Questa condizione di asimmetria permette di far venire fuori il vero valore terapeutico del dire.

Lo psicologo è tenuto a sottrarsi alla reciprocità della relazione, rimane "in ombra", in ascolto. E' solo quando questo lavoro viene messo in atto che la parola del paziente acquista un nuovo ruolo, un valore fondamentale, proprio perché essa non è rivolta a nessuno se non a sè. Quando lo psicologo non riesce in questo suo indispensabile lavoro, il rapporto psicologo-paziente può scadere su un piano immaginario simile a quello di due amici: in quel caso siamo sicuri che non succederà mai nulla di davvero trasformativo o utile, anzi, il percorso dovrebbe concludersi.

Se la parola è così importante, perché a volte gli psicologi stanno in silenzio?



La situazione di asimmetria che c'è tra terapeuta e paziente, e che permette il lavoro di apertura e trasformazione, passa necessariamente da qualcosa di diverso dal "dare consigli" o dispensare soluzioni. Proprio perché non è un vostro amico, lo psicologo tenderà a rimandarvi in vari modi la vostra domanda, in modo che possiate, attraverso il suo aiuto, trovare una vostra risposta soggettiva. Uno degli strumenti utili allo psicologo affinché questo avvenga è proprio il silenzio: è proprio attraverso il silenzio che è possibile dare pieno potere e spazio alla vostra parola (non a quella del terapeuta!).

E' chiaro che sta al professionista "dosare" le parole e i silenzi affinché siano produttivi e non ostativi al percorso.


E se mi decido... Quanto dura?


I tempi di un percorso o di una psicoterapia non sono prevedibili a priori. Essi dipendono non solo dalla domanda e dalla problematica del soggetto, ma anche da altre variabili: l'orientamento teorico del professionista, l'obiettivo del percorso e, chiaramente, l'andamento della cura.

La durata si modifica anche in base a ciò che si cerca da un percorso di questo tipo: molte volte, ad esempio, si arriva dallo psicologo con la domanda di "disfarsi" di un sintomo, ma andando avanti nel percorso ci si inizia a conoscere e può accadere che, una volta scomparsi i sintomi, la persona decida di proseguire per migliorare e affrontare questioni più profonde.

E' comunque necessario tener conto che un percorso di psicoterapia deve sempre essere una scelta del soggetto, non può mai essere "prescritto", a prescindere dalla sua durata. E' bene tenere a mente che non c'è una durata "giusta" o un numero di sedute ottimali per un percorso di questo tipo e che in ogni momento il paziente ha la facoltà di scegliere se e quando sospendere la terapia, insieme al suo terapeuta.




"La possibilità di comunicare, di costituire una modalità di alterità,

di creare un dialogo presuppone una spazialità distanziata,

un silenzio da cui nasca la parola, uno sguardo da cui nasca il vedere."

F. Basaglia

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